Passau paraula: les monjas no tenan de manjà.
La notizia correva di casa in casa, nelle botteghe, veniva coinvolto anche il macellaio, chi aveva provviste ne tirava fuori una parte, qualcuno ci metteva anche dei soldi.
Le suore erano quelle di clausura e abitavano nel monastero adiacente alla Chiesetta di San Giovanni, da cui l’omonima spiaggia. La popolazione algherese era molto affezionata a quella piccola comunità di religiose, per i bei servigi che prestavano nel campo del cucito ma soprattutto perché sapevano ascoltare, consolare nella fatica e sostenere con la preghiera ogni richiesta.
Poterle assistere nel momento del bisogno, compreso quello materiale del cibo, era doveroso e difficilmente qualcuno si tirava indietro, c’era anzi chi rinunciava anche a qualcosa di essenziale pur di ripagare le suore per la loro continua intercessione. La fede dei poveri era semplice, talvolta ingenua, ma ben radicata nei valori della carità cristiana.
Quando si avvicinava la festa cominciavano i pellegrinaggi, di buon mattino ma anche al pomeriggio. Mamme e bambini, rigorosamente a piedi, dal centro storico si spostavano a San Joan.
La piccola chiesa non poteva ospitare tanti fedeli, per cui nel piazzale antistante una piccola folla aspettava di entrare.
I bambini ovviamente scorrazzavano come tanti agnellini al pascolo, e col le loro grida animavano di arrogante giovinezza quel momento di ricerca interiore e di ringraziamento, perché si sapeva ringraziare anche nella difficoltà, si aveva un occhio di riguardo anche per chi stava peggio di noi.
La domenica comparivano anche gli uomini e le bancherelle de lo torró, e ne vedevi bambini intenti a succhiarsi le dita appiccicose!
In tutta la Sardegna la notte dei fuochi è quella che introduce la festa di S. Antonio Abate. I più conoscono la festa perché introduce i festeggiamenti di Carnevale, dal 17 di gennaio sino al successivo mercoledì delle ceneri.
Ad Alghero l’Antonio festeggiato è quello da Padova, che io ricordi, e i bambini e le bambine uscivano vestiti da fraticelli, il pane di S. Antonio entrava in ogni casa come una benedizione, e lì vi rimaneva per l’intero anno, anche di più.
Da noi lo foc per eccellenza era quello di San Joan (dico era perché l’attuale non gli assomiglia affatto), e si accendeva la notte che introduceva la festa del santo, il 24 di giugno.
Non sto qui a spiegare le ragioni antropologiche, storiche o religiose che stanno alla base della ricorrenza, però una cosa è certa: era una festa molto sentita e di grande e sincera partecipazione, senza alcuna teatralità, spontanea, la cui organizzazione era completamente demandata a los minjons e los jovenots de la muralla, che di certo non aspettavano il contributo del Comune o la direzione della Pro Loco.
Lo foc de San Joan che io ricordo si faceva sui bastioni, fronte Palau de la Vista, nello spiazzo compreso tra lo Rocò gran i lo Rocò petit, oggi riservato ai tavolini dei ristoranti che si affacciano alla muraglia.
Non c’era il lastricato ma solo un piazzale di terra battuta che confinava con una striscia di asfalto.
Allora le mareggiate depositavano grandi quantità di legname sulle spiaggette di pietrisco. Legname che regolarmente alimentava i fuochi delle nostre arrostite di pesce del solaio, per noi il più buono in assoluto. La quantità del legname però era tale da poter alimentare anche il fuoco della festa.
Una squadra stava su e una giù, e con delle corde e per diversi giorni, si tirava l’inimmaginabile, sino a costruire un falò di notevoli dimensioni.
Le spiaggette, libere dai depositi, erano pronte per l’estate, anche se la nostra estate, quella dei bambini, non cominciava mai più tardi di Pasqua.
Chi doveva cambiare l’arredamento di casa non aspettava occasione migliore: era un via vai di sedie a tre zampe, di comodini tarlati, di ante di armadio, di poltrone cenciose, qualche vecchio materasso di crine, la porta scardinata, la persiana deformata, les canyas de la bovida putrida.
Non c’erano gli abiti bianchi, neppure il battesimo a mare. Men che meno gli artisti, i cavalli con i cavalieri, la pomposa sceneggiatura di oggi.
Ma quando scendeva la notte e la fiamma si alzava, quando il fuoco sbuffava lanciando scintille, quando il turbinare del fumo si affidava al vento e innondava le prime case, i più bravi sfidavano quel fuoco con salti acrobatici, con volte e giravolte, corpi atletici e seminudi che volteggiavano nell’aria calda illuminata dalle fiamme.
La gente del centro storico riunita applaudiva, e per l’occasione convenivano intere famiglie, attratte da quei ragazzi saetta che come angeli volavano attorno al fuoco purificatore.
I bambini, io ero un bambino, fremevano di partecipare, tentando di liberarsi invano dalla mano dei genitori, che stretta teneva la loro manina ribelle.
Lentamente il fuoco si addomesticava, le fiamme non si alzavano più con l’irruenza iniziale e i saltatori aumentavano, tanti altri trovavano il coraggio di provare.
Le rincorse erano lunghe e veloci, poi il salto che sfiorava il fuoco se non dentro il fuoco, l’incitazione dei presenti, le urla di soddisfazione per il risultato raggiunto.
Lungo i lati già si formava della brace, poca roba, una striscia di tizzoni ancora ardenti.
Ed è lì che cascò l’occhio di noi bambini. Parte il primo, una taparita, correva e si guardava attorno, non so se cercando approvazione o temendo il peggio.
Oplà, un piccolo salto e la paura del fuoco è vinta.
Mollati gli altri bambini si realizzava la nuova attrazione, perché se prima prevaleva la destrezza e il coraggio ora si ammirava l’ingenuità simpatica degli infanti e la corsa impacciata de les crabaturas.
I meno coraggiosi non rispondevano a nessuna incitazione, anzi qualcuno piangeva per difendersi e trovare l’abraç de la mare, mes calent del foc.
Lentamente la notte si faceva profonda e i primi a cedere aravamo proprio noi, i più piccoli.
La resa era immediata, come il sonno tra le braccia forti del babbu que ma portava en casa.
Poi hanno allungato il molo e le correnti non hanno più depositato né legname né palla marina,
lentamente il centro storico si è spopolato, sono apparsi i primi ristoranti e poi i tavolini sulla muralla.
La chiesetta di San Joan è quasi invisibile, circondata dalla avanzata dei gazebo.
Lo foc de San Joan si è trasformato in qualcosa di equivoco, nuove simbologie mi confondono e la teatralità degli attori mortifica la spontaneità.
Di bambini manco a parlarne, quasi assenti.
Oggi penso che quelle acrobazie sul fuoco altro non erano che la metafora della vita, di quello che ci aspettava.
Chi c’era e ha vissuto quei voli, chi ha conosciuto i migliori saltatori, sa a cosa mi riferisco e quanto può stringersi il cuore al pensiero di una gioventù forte ma tradita.