La Settimana Santa in Sardegna rappresenta un intreccio unico di devozione popolare, tradizioni secolari e influenze culturali, con il Sabato Santo che emerge come giorno carico di simbolismo e rituali profondamente radicati. Questo periodo, noto in sardo come *Sàbudu Santu*, segna il passaggio dal lutto della Passione alla gioia della Resurrezione, attraverso cerimonie che combinano elementi liturgici, folklore e identità comunitaria. Le celebrazioni, ereditate dalla dominazione spagnola del Seicento e arricchite da stratificazioni precedenti, variano da paese a paese, mantenendo però una struttura narrativa comune incentrata sulla deposizione di Cristo, la preparazione alla Resurrezione e l’attesa mistica del miracolo pasquale.
I riti del Sabato Santo affondano le radici nel periodo della dominazione spagnola (XVI-XVII secolo), quando le confraternite religiose, ispirate ai modelli iberici delle *cofradías*, iniziarono a organizzare processioni e rappresentazioni sacre[6]. Queste istituzioni, spesso legate a specifiche categorie artigianali o sociali, divennero custodi di rituali come lo *Iscravamentu* (la deposizione dalla croce) e la processione dei *Misteri*, statue lignee che illustrano episodi della Passione. La fusione tra liturgia cattolica e tradizioni locali diede vita a pratiche uniche, come l’uso di canti in latino medievale mescolati a dialetto sardo durante le processione.
Alcuni elementi, come la purificazione delle case colpendo i letti con pertiche per scacciare spiriti maligni – documentata a Sant’Antioco fino al XX secolo – rivelano un substrato pagano legato ai cicli agrari e alle credenze pre-cristiane. Il grano germogliato al buio (*su Nennere*), simbolo di rinascita, potrebbe derivare da antichi culti della fertilità nuragici, successivamente cristianizzati.
Una delle pratiche più diffuse è *Sas Chilcas*, la visita ai sepolcri allestiti nelle chiese, dove i fedeli vegliano in preghiera davanti agli altari adornati con *su Nennere* e fiori selvatici. Questo pellegrinaggio notturno, spesso accompagnato da canti monodici, rievoca la ricerca di Cristo nel sepolcro da parte delle pie donne e simboleggia il passaggio dalle tenebre alla luce. Ad Alghero, di origini catalane, i sepolcri vengono illuminati da fiaccole avvolte in veli rossi, creando un’atmosfera di intensa suggestione.
Momento culminante della giornata è lo *Iscravamentu* (o *Desclavament*), la drammatizzazione della deposizione di Cristo. Un crocifisso con arti snodabili viene solennemente rimosso dalla croce, avvolto in un sudario e deposto su una lettiga (*varilla*), mentre i confratelli intonano il *Miserere* in sardo. A Cagliari, questo rito si svolge nella chiesa di San Giacomo, dove la statua del Cristo morto viene portata in processione insieme alla Madonna Addolorata, ancora vestita a lutto. La cerimonia, carica di pathos, unisce precisione teatrale e devozione, con i partecipanti che spesso gridano *“Gracia!”* in ricordo delle invocazioni medievali di misericordia.
Prima dell’alba della Domenica di Pasqua, le confraternite dedicano ore alla preparazione della statua mariana, sostituendo il manto nero con uno azzurro o bianco ricamato in oro, segno dell’imminente gioia della Resurrezione. A Castelsardo, questo momento è riservato alle donne del paese, che cantano *goccius* (lamenti tradizionali) mentre sistemano i veli, in un rito di passaggio dal lutto alla festa.
Fino agli anni ’60, a Sant’Antioco si celebrava la Resurrezione già al sabato mattina, con una messa alle 9:00 accompagnata dalla benedizione del fuoco e dell’acqua, seguita dallo “scioglimento” delle campane legate dal Venerdì Santo. Questa anomalia liturgica, forse legata a esigenze agricole o a un’antica disputa con la diocesi, è stata uniformata al rito romano, ma resta viva nella memoria collettiva come elemento identitario.
Nella città catalana, il Sabato Santo è caratterizzato dalle *Lamentacions*, canti polifonici in lingua medievale eseguiti dai *cantors* durante la processione notturna dell’Addolorata. I versi, tramandati oralmente dal XV secolo, mescolano testi biblici a riferimenti alla storia locale, come la liberazione dagli assedi saraceni, in un esempio di teologia incarnata nella comunità.
Nel borgo del Montiferru, i fedeli percorrono a piedi nudi le stradine lastricate del centro, reggendo croci di canna illuminate da lumini, mentre le confraternite intonano il *Stabat Mater* in sardo logudorese. Questo pellegrinaggio notturno, detto *Su Caminu de sa Luz*, termina con l’accensione di un falò rituale (*su foghidoni*) che simboleggia la luce di Cristo.
Il vaso di grano germogliato al buio, ornato con nastri e fiori di pero selvatico, non è solo un addobto per i sepolcri, ma un simbolo agricolo di rigenerazione. La crescita pallida e fragile delle piantine, ottenuta senza luce, allude alla Resurrezione come vittoria sulla morte, mentre l’uso di cereali lega il rito ai cicli della natura. In alcuni paesi, i semi del *Nennere* vengono successivamente sparsi nei campi come augurio di fertilità.
Durante le visite ai sepolcri, i fedeli lasciano offerte di *sas chilcas*, sottili dischi di cera decorati con simboli pasquali, realizzati artigianalmente dalle donne durante la Quaresima. Questi oggetti, appesi agli altari, rappresentano sia una forma di devozione personale sia un’arte popolare in via di estinzione, con motivi che variano da cuori trafitti a colombe dello Spirito Santo.
Il Sabato Santo sardo incarna una sintesi unica di storia, spiritualità e cultura materiale, dove ogni gesto rituale trasmette secoli di devozione e appartenenza. Nonostante le pressioni omologanti della modernità, queste tradizioni resistono, grazie all’impegno delle confraternite e al rinnovato interesse turistico. Tuttavia, sfide come lo spopolamento dei centri minori e la secolarizzazione pongono interrogativi sulla trasmissione alle nuove generazioni. Progetti di valorizzazione, come l’inserimento dei riti nel patrimonio immateriale UNESCO, potrebbero garantire la sopravvivenza di un patrimonio che è allo stesso tempo religioso, artistico e comunitario.