Nel teatro infinito del Giro d'Italia, la diciottesima tappa da Morbegno a Cesano Maderno scrive un nuovo capitolo di quella letteratura epica che solo le due ruote sanno raccontare. Centoquarantaquattro chilometri di asfalto lombardo, dove il destino intreccia le sue trame più crudeli e più sublimi, lasciando sul palcoscenico le cicatrici profonde della sconfitta e la gloria imperitura della vittoria.
La giornata si apre sotto il segno della disgrazia, con Juan Ayuso che porta sul volto tumefatto i segni di un nemico piccolo quanto spietato: un calabrone, entrato nell'intimità del suo casco durante la tappa precedente, ha trasformato il giovane spagnolo in una maschera di dolore. L'occhio chiuso, la faccia gonfia, il ritardo di trentacinque minuti della vigilia: tutto concorre a scrivere un epilogo che sa di tragedia greca. E infatti, quando mancano ancora centonove chilometri e otto decimi al traguardo, il corridore della UAE si arrende definitivamente, abbandonando quel Giro che aveva iniziato con ben altre ambizioni. Così finisce talvolta il sogno: non sotto i colpi di un avversario degno, ma per il pungiglione di un insetto.
Ma il ciclismo, nella sua infinita capacità di rigenerazione, sta già scrivendo un'altra storia. Fin dai primi chilometri, quando ancora l'eco dello zero kilometrico risuona nell'aria, Enzo Paleni si lancia in uno di quegli attacchi che sono la firma della sua partecipazione a questo Giro. Dietro di lui, come in una danza orchestrata dal caso, si muovono altre figure: Colleoni, Maestri, Dewulf. L'avanguardia prende forma lentamente, faticosamente, fino a diventare un serpentone di oltre trenta anime in fuga.
È l'alba di una delle fughe più imponenti di questa edizione rosa, un plotone ribelle che tiene in scacco il gruppo per l'intera giornata. Tra i fuggitivi, nomi illustri come Wout van Aert e Mads Pedersen, velocisti che hanno intuito le difficoltà che la tappa riserva ai loro simili, e gregari di lusso come Dylan van Baarle e Mattia Cattaneo.
Ma soprattutto ci sono due uomini destinati a scrivere il finale di questa storia: Nico Denz e Mirco Maestri.
Il percorso disegna un profilo capriccioso: dopo i primi chilometri in pianura, le asperità lombarde iniziano a farsi sentire. Christian Scaroni, il corridore dell'Astana, si prende i punti del Gran Premio della Montagna con la metodicità di chi sa che ogni punto può contare nella classificazione degli scalatori, pur senza mai impensierire seriamente Lorenzo Fortunato nella corsa verso la maglia azzurra.
La UAE Team Emirates, che dovrebbe dettare il ritmo per proteggere la maglia rosa di Isaac Del Toro, sembra invece navigare in un limbo tattico. Il ritmo elevato imposto dalla fuga non lascia spazio ai velocisti puri, che uno dopo l'altro perdono contatto con la testa della corsa. È chiaro che la vittoria si gioca tra i fuggitivi, mentre il gruppo maglia rosa si rassegna a un ruolo di comprimario.
Quando la corsa entra nel circuito finale, il vantaggio dei battistrada supera i dieci minuti. È il momento della verità.
La fuga, che ha resistito compatta per oltre cento chilometri, inizia a sfaldarsi sotto i colpi degli attacchi. Prima un tentativo di Tarozzi, Magli e Rochas al Red Bull KM, poi il ricompattamento, infine l'accelerazione decisiva di un drappello di dodici uomini.
Ma Nico Denz ha in serbo un'altra carta. Il tedesco della Red Bull-Bora-Hansgrohe, corridore di esperienza cristallizzata in anni di professionalismo, sceglie il momento giusto per sferrare il colpo decisivo. A quindici chilometri e nove decimi dal traguardo, quando la tensione ha raggiunto il parossismo, Denz si alza sui pedali e parte. Non è un attacco esplosivo, ma progressivo, inesorabile, come una marea che sale.
Dietro di lui, De Bondt tenta una reazione disperata, ma è troppo tardi. Il tedesco ha trovato quella dimensione sublime che appartiene solo ai campioni: la solitudine della vittoria. Nel tratto più tecnico del circuito, là dove la tattica conta quanto le gambe, Denz vola verso un successo che sa di capolavoro. Quando Nico Denz attraversa il traguardo di Cesano Maderno, dopo tre ore, dodici minuti e sette secondi di corsa, il suo viso mostra quella serenità che appartiene solo a chi ha domato completamente la propria fatica. È la sua terza vittoria al Giro d'Italia, ma forse la più bella: conquistata con intelligenza tattica, costruita con pazienza certosina, suggellata con un finale da grande campione.
Dietro di lui, a un minuto e un secondo, arriva Mirco Maestri, il corridore della Polti VisitMalta che aveva onorato la fuga dall'inizio alla fine, conquistando una seconda piazza che sa di riscatto. Sul podio virtuale anche Edward Planckaert, mentre il gruppo maglia rosa si presenta al traguardo con quasi quattordici minuti di ritardo, confermando che questa giornata apparteneva ai fuggitivi.
La classifica generale resta immutata, con Isaac Del Toro sempre in rosa, ma la diciottesima tappa ha comunque regalato al Giro una delle sue pagine più belle: quella scritta dalla intelligenza tattica di un corridore che ha saputo aspettare, calcolare, e poi colpire nel momento giusto. Nel ciclismo moderno, spesso dominato dalla forza bruta, dai computerini e dai watt, Nico Denz ha ricordato a tutti che l'astuzia rimane l'arma più affilata del campione vero, insieme a una buona dose di coraggio.