La vita che si spegne per donare luce: La storia di G.O.

  C'era una finestra nella cella di G.O., una piccola apertura verso un mondo che sembrava averlo dimenticato. Seduto lì, con gli occhi azzurri fissi sull'orizzonte irraggiungibile, il ragazzo di ventisette anni sembrava un'anima smarrita in un universo di cemento e ferro. Nel carcere di Uta, dove il tempo si dilata e i sogni appassiscono, G.O. attendeva una speranza che tardava ad arrivare.

  "Sto leggendo un libro", aveva detto con voce tenue a Irene Testa, garante dei detenuti della Sardegna, durante una delle sue visite. Non aveva chiesto nulla, non aveva preteso niente. Solo l'attesa silenziosa di un nulla osta che lo avrebbe portato in comunità, lontano da quelle mura che soffocavano il suo spirito. Il suo compagno di cella si preoccupava per lui, ripeteva che non stava bene, che aveva già cercato di fuggire da quel dolore insopportabile. 

  G.O. non era fatto per quel mondo di ombre. La sua presenza delicata strideva con l'ambiente aspro che lo circondava. "Sembrava spaesato, come se quella dimensione non fosse per lui", ricorda Irene Testa. "Occhi azzurri e volto pulito, lo facevano apparire come un corpo estraneo all'interno di un contenitore di dolore". E in quel contenitore, il suo cuore fragile ha smesso di lottare. Il 23 novembre, la notizia ha squarciato il silenzio: G.O. aveva tentato il gesto estremo. Un medico del 118, accorso su segnalazione degli agenti di polizia penitenziaria, ha cercato di riportarlo indietro dal baratro. Ma la vita di G.O. si stava già spegnendo, scivolando via come sabbia tra le dita. 

  Trasportato in ospedale, le sue condizioni sono peggiorate, e oggi il suo viaggio terreno è giunto al termine. Ma anche nella morte, G.O. ha scelto di donare. Aveva espresso da tempo la volontà di offrire i suoi organi, un ultimo atto d'amore verso un mondo che gli aveva tolto tanto. "Voglio che si sappia di questo suo importante gesto, voglio che si sappia che la sua vita non valeva meno di altre anche se detenuto", afferma con voce ferma Irene Testa. Un paradosso struggente: morire in cattività, ma liberare la vita in altri corpi. La madre di G.O. ha saputo della tragedia attraverso una chat, una fredda notifica che le ha strappato il respiro. Nessuna madre dovrebbe scoprire così la perdita di un figlio. "Quando la chiamo ho poche parole di conforto", confessa Testa. "La sensazione è di imbarazzo, di disagio, la tentazione è quella di chiedere scusa". Scusa per non aver potuto fare di più, per un sistema che troppo spesso dimentica l'umanità dietro le sbarre. In una lettera aperta al Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, Irene Testa lancia un grido che squarcia il velo dell'indifferenza: "Ogni giovane che evade dal carcere togliendosi la vita è anche e soprattutto un suo fallimento". Perché G.O. non aveva bisogno di essere custodito, ma di essere curato. Era in custodia cautelare, in attesa di una giustizia che per lui non è mai arrivata. 

  La storia di G.O. è il riflesso di una società che troppo spesso volta le spalle ai più fragili. Un ragazzo che, nonostante tutto, ha scelto di donare ciò che gli restava, nella speranza che altri potessero avere la vita che a lui è stata negata. La sua cella ora è vuota, ma il suo gesto risuona come un'eco potente, un monito a ricordare che dietro ogni detenuto c'è una persona, un'anima che chiede di essere vista. E mentre il sole tramonta dietro le mura di Uta, rimane il pensiero di quegli occhi azzurri che guardavano oltre le sbarre, cercando un frammento di cielo. La vita di G.O. si è spenta, ma la luce del suo ultimo atto continua a brillare, illuminando le vite di coloro che ha salvato. E forse, da qualche parte, il suo cuore batte ancora, portando avanti il messaggio che anche nella disperazione più profonda può nascere un gesto d'amore.

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