L'editoriale: L'Italia corporativa: un vizio antico che ci tiene in catene

  «L'Italia è corporativa. Per diventare un grande medico bisogna essere figli di un medico o sposare chi ha parenti medici; lo stesso vale per gli avvocati. Questo è ciò che i giovani devono purtroppo capire». Così sentenziava Indro Montanelli quarant'anni fa. Parole che, come lame affilate, tagliano ancora oggi nella carne viva del nostro Paese. 

  Ma è davvero cambiato qualcosa da allora? O siamo ancora impantanati in quel sistema di caste che premia l'appartenenza più del merito? Guardiamo ai fatti. Secondo un rapporto dell'ISTAT, in Italia oltre il 40% dei figli segue le orme professionali dei genitori. Nelle professioni liberali, questa percentuale sale vertiginosamente. Nei settori medico e legale, si stima che più del 60% dei nuovi professionisti provenga da famiglie già inserite nel campo. Coincidenze? Difficile crederlo. E non è solo una questione di tradizione familiare. È un sistema che si autoalimenta, creando barriere invisibili ma invalicabili per chi non ha il cognome giusto o le conoscenze appropriate.

  Gli ordini professionali, nati per tutelare la qualità e l'etica delle professioni, si sono spesso trasformati in fortezze che difendono privilegi acquisiti. Prendiamo l'accesso alle specializzazioni mediche. Ogni anno, migliaia di giovani laureati in medicina restano esclusi dalle scuole di specializzazione a causa di un numero di posti limitato e di concorsi spesso opachi. Nel 2022, su circa 18.000 laureati in medicina, solo 9.000 hanno avuto accesso alla specializzazione. E chi sono quelli che ce l'hanno fatta? Non pochi sono figli d'arte, con corsie preferenziali garantite da parenti influenti. Non va meglio nell'accademia. Un'indagine del CNR ha rilevato che il 20% dei docenti universitari ha almeno un parente stretto nell'ambito accademico. Le baronie universitarie non sono una leggenda, ma una realtà tangibile che soffoca il rinnovamento e penalizza i talenti emergenti. 

  E allora, Montanelli aveva torto? Pare proprio di no. L'Italia continua a essere un Paese dove il cognome conta più del curriculum, dove le porte si aprono con la chiave delle relazioni e non con quella delle competenze. Ma quali sono le conseguenze di questo sistema? Prima di tutto, la fuga dei cervelli. Ogni anno, migliaia di giovani talenti lasciano l'Italia per cercare opportunità all'estero. Secondo i dati dell'AIRE, nel 2021 oltre 120.000 italiani si sono trasferiti all'estero, un aumento del 5% rispetto all'anno precedente. E non si tratta solo di numeri: è un'emorragia di intelligenze, di energie, di futuro. In secondo luogo, l'immobilismo sociale. L'ascensore sociale in Italia è fermo da decenni. Un rapporto dell'OCSE evidenzia come nel nostro Paese occorrano cinque generazioni perché un individuo nato in una famiglia a basso reddito raggiunga il reddito medio nazionale. Un'eternità che condanna intere fasce della popolazione a un destino già scritto. Eppure, nonostante tutto, ci ostiniamo a ignorare il problema. Preferiamo cullarci nell'illusione che il talento, prima o poi, emerga da solo. Ma la realtà ci sbatte in faccia un'altra verità: senza le giuste connessioni, il talento resta spesso inespresso. 

  Allora, che fare? Continuare a lamentarsi o iniziare a guardare in faccia la realtà? Montanelli, con il suo consueto scetticismo, avrebbe probabilmente scrollato le spalle. «Gli italiani», diceva, «sono capaci di tutto, ma non di fare sistema». E aveva ragione. Siamo un popolo di individualisti, geniali nel risolvere problemi personali, ma incapaci di costruire un tessuto collettivo sano. E allora, siamo condannati a questo sistema? Forse sì, forse no. Ma bisogna essere realisti: in un Paese dove molti faticano ad arrivare a fine mese, dove le opportunità sono poche e mal distribuite, è quasi naturale che ciascuno cerchi di aiutare i propri—familiari, amici, conoscenti. È una questione di sopravvivenza più che di malaffare. Cambiare questa mentalità richiede non solo una rivoluzione culturale, ma anche un miglioramento concreto delle condizioni economiche e sociali. Come si può pretendere che una persona scelga uno sconosciuto al posto di un amico quando le risorse sono scarse e la competizione spietata? Forse è qui che risiede il nodo gordiano. 

  Non si tratta semplicemente di biasimare chi favorisce i propri cari, ma di comprendere che in una società dove la fame—reale o percepita—è all'ordine del giorno, il corporativismo diventa una difesa naturale. Montanelli l'aveva intuito: per scardinare questo sistema, bisognerebbe cambiare l'Italia dalle fondamenta. Ma come si fa quando il tessuto sociale è così lacerato? Quando le istituzioni non offrono garanzie e il futuro appare incerto? La verità è che, forse, non possiamo aspettarci miracoli. Possiamo però cercare di mitigare gli effetti più deleteri del corporativismo, promuovendo trasparenza dove possibile e creando opportunità che vadano oltre le cerchie ristrette. Non è una soluzione definitiva, ma un compromesso dettato dalla realtà. Perché, in fondo, se possiamo dare una mano a un amico, perché non farlo? La sfida sta nel trovare un equilibrio, nel riconoscere i limiti umani senza per questo rinunciare del tutto al merito. 

  Quindi, l'Italia è e sarà ancora corporativa? Sì, e probabilmente lo resterà. Ma forse, comprendendo le radici profonde di questo fenomeno, possiamo iniziare a costruire piccoli spazi di cambiamento. Non sarà una rivoluzione, ma potrebbe essere un passo verso un futuro in cui il merito e le relazioni personali non siano per forza in conflitto. Perché, alla fine, siamo pochi e limitati. E in tempi difficili, è umano aggrapparsi a ciò che si conosce. Ma riconoscere questo non significa accettarlo passivamente. Significa, piuttosto, essere consapevoli delle sfide e delle complessità, senza nascondersi dietro facili moralismi. E chissà, forse un giorno riusciremo a trovare un modo per conciliare il bisogno di aiutare i nostri con l'esigenza di dare spazio a chi merita, indipendentemente dal cognome che porta.

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