La voce che ci unì: l’ultimo addio a Bruno Pizzul, eco intramontabile del nostro calcio

Se n’è andata la voce che, per quasi un ventennio, ha saputo modulare speranze e timori, esaltazioni e mestizie di un popolo calcistico intero. Bruno Pizzul ci ha lasciati in questo inizio di marzo 2025, e con lui si chiude un capitolo imprescindibile della narrazione sportiva italiana, dalla cadenza pacata eppure vibrante che ha accompagnato generazioni intere. La sua parabola professionale e umana è espressione di quella miscela irripetibile di competenza, eleganza e calore che ha reso il calcio – quando raccontato dalla sua voce – una liturgia laica, uno spazio comune e condiviso in cui appassionati e semplici curiosi hanno potuto riconoscersi.

Cresciuto all’ombra della sua Udine, Pizzul comprese, ancora prima che molti altri, quanto lo sport nazionale potesse divenire tramite di coesione collettiva. Per lungo tempo – da quando prese idealmente il testimone da un monumento come Nando Martellini fino all’epoca di Giovanni Trapattoni alla guida della Nazionale ai mondiali del 2002 – egli rappresentò la “voce” dell’Italia calcistica nei grandi tornei internazionali. Non era una voce roboante o teatrale, ma un timbro amico, che non indugiava in eccessi di retorica o sensazionalismo, fedele peraltro al suo stile misurato e rispettoso: un rigore che sapeva regalare, qua e là, tocchi di commovente passione e qualche aristocratico sorriso.

La sua cadenza inconfondibile, l’uso di un eloquio raffinato ma mai tronfio, rendevano ogni partita dell’Italia – fosse un Mondiale denso di pathos o una sfida meno altisonante – un racconto che andava oltre l’agonismo. Nell’era di Pizzul, la telecronaca Rai della Nazionale assurgeva a rito nazionale: in quei pomeriggi estivi di giugno e luglio, tra i morsi d’ansia dei rigori e i boati esplosivi di un gol al novantesimo, la sua presenza sonora ci restituiva la sensazione di essere tutti insieme, milioni di cuori e una sola voce. Non era solo un resoconto tecnico di passaggi, schemi e tattiche: era una narrazione che attingeva da un patrimonio di competenze maturate nel corso di una lunga carriera e da una sensibilità che poteva farsi anche poetica, quando era il caso di elevare le gesta (o le sconfitte) oltre il mero dato sportivo.

Pizzul incarnava un’idea di eleganza ormai rara, lontana dalla frenesia urlata di gran parte del giornalismo sportivo odierno, alla ricerca perenne di clamore e iperboli. Dal microfono sapeva puntare lo sguardo al di là del campo di gioco, cogliendo anche la dimensione umana dei calciatori e l’atmosfera emotiva di tifosi che, negli stadi e nelle case, vivevano partite e tornei come capitoli di un romanzo popolare. Aveva, in qualche modo, un dono squisitamente letterario: sapeva restituire suoni, sfumature, circostanze, quasi come a volerle tradurre in un componimento corale di cui egli si sentiva, innanzitutto, interprete responsabile.

La sua voce, dopo l’eredità di Martellini, si stagliava come un ponte con l’epoca magnifica in cui i racconti radiofonici di Carosio e Ameri riempivano la fantasia degli appassionati. L’eredità di Pizzul, oggi che non c’è più, rimane affidata a quel filo di nostalgia che unisce la tradizione dei grandi cantori dello sport italiano: un senso di familiarità e rispetto profondo, un tenue rimpianto di calda compostezza che, a distanza di anni, continua ad avvolgere chiunque ricordi un suo sobrio “Gentili ascoltatori, buongiorno…”.

La notizia della scomparsa di Bruno Pizzul tocca ogni amante del calcio, e non solo: perché se il giornalismo sportivo porta anche la responsabilità di farsi cronaca della passione collettiva, allora la dipartita di chi, per vent’anni e più, fu la colonna sonora della maglia azzurra, è una perdita che travalica la dimensione dell’informazione per approdare direttamente alla sfera del sentimento comunitario. La sua voce, come un sussurro d’altri tempi, continuerà ad aleggiare sopra i ricordi delle serate mondiali e delle estati europee, quando lui, con signorile calma, ci ricordava che in fondo il calcio è un meraviglioso gioco, ma anche uno spaccato autentico di vita condivisa.

È così che, mentre il pallone prosegue la sua corsa su nuovi canali e in ritmi iperspettacolari, resteranno impresse le telecronache di Pizzul come memorie indelebili, fotogrammi sonori d’una stagione di sogni e sconfitte, di vittorie sfiorate e di avventure azzurre vissute con il fiato sospeso. Perché Bruno Pizzul non fu solo un cronista: fu un maestro di stile, un narratore della passione, e soprattutto un amico che, con le giuste pause e quel candore intellettuale che lo rendeva unico, ci ha spiegato che, talvolta, un pallone può essere assai più che un semplice gioco. E nel ricordo di chi lo ha ascoltato, rivivrà per sempre la voce che un tempo unì un intero Paese.

Cronaca

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