Inquietudine e turbamento.
Passeggiare per le strade di Gairo Vecchio, il paese fantasma più
famoso della Sardegna, provoca quel senso di angoscia e fascino
che solo i luoghi abbandonati sanno suscitare.
Impossibile, mentre si cammina tra le antiche mura – sopravvissute
al tempo in maniera malconcia –, attraversando i selciati pregni di
ricordo, non immaginare quando questo borgo dimenticato era
pieno di vita.
E allora, nella mente, fanno capolino le signore che camminano con
le brocche sulla testa, i bambini che corrono felici, gli uomini che si
recano all’orto.
Ma oggi nessuna anima ci passeggia più. Nessuna risata di bimbo
allieta le mura. Solo il silenzio.
Cosa avvenne a Gairo Vecchio? Quando il suo cuore smise di
battere?
Il suo nome pare derivare dal greco e significare “terra che scorre”.
Del resto, i primi nubifragi di cui si ha memoria risalgono
all’Ottocento: tra frane e smottamenti, la tranquillità non è mai
davvero di casa.
Eppure, fino al 14 ottobre del 1951, quel borgo arroccato tra le
montagne è ancora casa. Poi, tutto cambia.
Quella mattina, il cielo inizia a rovesciare una quantità d’acqua
impressionante. Ma il peggio deve ancora venire: per giorni e giorni,
fino al 19 ottobre, non ci sarà tregua.
Un’alluvione entrata nella memoria collettiva, non solo per la
violenza, ma per la durata delle piogge che si abbattono su un
territorio già provato, già ammaccato.
A quel punto gli abitanti non hanno dubbi: bisogna ricostruire
altrove.
Non è più sicuro restare, anche se il cuore vorrebbe restare
aggrappato a ogni pietra.
C’è un momento nella vita in cui bisogna abbandonare i propri
sentieri per salvarsi, e i gairesi lo sanno.
Poiché non si trova un accordo, dal borgo nascono altri tre paesi:
Gairo Sant’Elena, Gairo Taquisara e Gairo Cardedu (che oggi è
semplicemente Cardedu, vicino al mare).
Gairo Vecchio, invece, rimane lì, sospesa nel tempo.
Oggi è una meta suggestiva, un luogo dove il tempo si è fermato,
visitato ogni anno da centinaia di persone. Le sue case spoglie, le
finestre senza vetri e le pareti scrostate raccontano la malinconia di
ciò che fu e la bellezza struggente di ciò che resta. È un posto dove
ritrovare la pace – paradossale, perché nasce dalla perdita.
Dove cercare il contatto con la natura.
Dove immaginare tempi lontani, persone lontane, atmosfere
lontane.
E, forse, la sua lezione più profonda è questa: Gairo Vecchio
ricorda la potenza indomita della natura, che non può essere
addomesticata.
Lei stravolge, lei conduce.
Noi, alla fine, possiamo solo sottostare alle sue regole.