Il cancro è una battaglia combattuta su più fronti: uno medico, che tutti conoscono, e uno meno visibile ma altrettanto sfiancante, fatto di distanze e incomprensioni. E non parliamo solo di chilometri, ma anche di quelle distanze emotive che separano i pazienti dai loro curanti.
Ecco, quindi, che la diagnosi di tumore diventa l'inizio di un viaggio estenuante, spesso lungo e complicato, non solo per i corridoi di ospedali lontani, ma anche nei meandri di una comunicazione fallace e insoddisfacente con chi dovrebbe essere il primo alleato nella lotta contro la malattia.
Secondo l'ultima ricerca del Cipomo, un paziente oncologico su quattro in Italia è costretto a viaggiare per oltre 30 chilometri per ricevere trattamento. Pensiamo a cosa significa questo in termini pratici: lunghe ore di viaggio, spesso in condizioni fisiche precarie, costi non indifferenti e un dispendio di energia che andrebbe invece conservata per combattere la malattia. Ma se la distanza fisica è un ostacolo misurabile, quella emotiva è un abisso che molti pazienti sentono come insormontabile.
Il 50% dei malati lamenta una carenza nella qualità della comunicazione con i medici e un senso di trascuratezza, come se la barriera fisica tra casa e ospedale si replicasse in una barriera comunicativa tra medico e paziente. Questo dato non è soltanto preoccupante; è un campanello d'allarme per un sistema sanitario che, tra le sue tante eccellenze, rischia di perdere di vista l'elemento umano, fondamentale nella gestione di una malattia così devastante.
Il cancro, si sa, non è solo una malattia del corpo ma attacca anche la mente e lo spirito. È una patologia che chiede un approccio olistico, che tenga conto non solo delle terapie più efficaci sul piano biologico, ma anche del sostegno emotivo, della vicinanza umana, del sentirsi ascoltati e capiti. Se quasi tutti i pazienti (96%, secondo lo studio Cipomo) sperimentano criticità lungo il percorso di cura, significa che il nostro sistema sta fallendo in qualcosa di fondamentale.
Questi malati intraprendono un viaggio doppio: uno verso i centri di cura, l'altro, più intimo e silenzioso, all'interno di un sistema che spesso li fa sentire soli. Soli mentre aspettano, soli quando parlano con un medico che forse non ha tempo di ascoltare, soli nel ritorno a casa, dove le parole del dottore risuonano vuote di empatia.
La soluzione non è semplice né immediata, ma è necessario un cambiamento di rotta.
Dobbiamo ridurre le distanze, sì, quelle chilometriche, ma soprattutto quelle emotive. Dobbiamo formare i nostri medici non solo come eccellenti tecnici della cura, ma come custodi della parte più umana della medicina. Dobbiamo investire in strutture più accessibili e in un sistema di supporto che faciliti il viaggio fisico e alleggerisca il carico emotivo.
Il cancro è una guerra che non si vince solo negli ospedali, ma nei cuori e nelle menti dei pazienti. È tempo di riconoscere che ogni chilometro e ogni muro emotivo aggiunti a questo percorso non sono solo inconvenienti: sono ingiustizie che possiamo e dobbiamo combattere.